Siamo il continente del risorto

Borgo della pace
Borgo della Pace

I pensieri non sono farfalle, né bruchi che camminano sulla terra. Tante volte mi sono incarnato nello spasimo di Cristo. Mi ha elargito grazie di perdono. Vivo l’impeto dell’impossibile. Ogni grazia è impenetrabile. Sono attratto dalla calamita della Parola del vangelo. Obbedisco alla rivelazione che mi rivoluziona dentro. Sono stato un grande peccatore. Grazie a Cristo, ora sono quello che sono.

Ora sono la sua Parola. Ora sono il suo consiglio. Ora sono la sua grazia che penetra intimamente nella mia carne e nelle mie ossa. Sono la carne del vangelo. Il discernimento è profondo a cacciare ogni senso di colpa e di limite. In Cristo siamo quel respiro sulla sua croce, affidato al Padre. Umiliato, ora sono ascoltato. Condannato, ora sono liberato. Svergognato, ora sono consolato in ogni senso. Lacrimato, sono come Cristo alla Veronica. La mia anima non vive più di virtù. Non vivo più per Dio, ma di Dio. Ora canto e la creazione tutta mi risponde. Ora invoco e le mie lacrime nutrono i disperati. Ora, come Maria di Lazzaro, scelgo l’essenziale.

Anche la terra vive di Dio. L’essenziale della natura è germogliare e produrre continuamente, anche il divino nelle foglie, nei fiori e in ogni vivente. Persino gli angeli mi chiedono consigli. Ogni persona è un angelo che vuole sapere di Dio. Per anni non ho ascoltato i consigli divini, ora mi tocca annunciarli e infonderli su chi è meno disperato di me. Ora mi basta quel Logos che non so mai tradurlo a senso divino. Cosa siamo noi per comprendere l’immensa sapienza di Dio? Scuoto il capo dinanzi alla mia nullità di comprendere. Storco le labbra nel non sapere il senso profondo seminato nel logos Giovanneo. Il Logos mi effonde ciò che non si può intuire. E’ l’ineffabile che abita in noi. E’ l’insondabile che mi spicca ad abitare nelle sue dimore. Un minuto cuore, amato da Dio. Un minuto palpito a respirare l’infinito. Un fragile tralcio a fecondare l’immenso amore di Cristo. Dentro mi fluisce la linfa che i secoli non sanno contenere. Sono appena quell’otre che egli, con gocce del suo pianto, mi ha plasmato. Ciò che fluisce nel tempo è solo fuliggine che il vento disperde. Anche le foglie secche danzano musiche e pensieri sotto il soffiare e l’emigrare impetuoso delle tempeste. Anche l’estasi che desideravo appartiene al tempo. L’estasi di Teresa è oltre la carne. Le visioni sono panorami che il tempo affascina. Altro sono quelle che spira il divino. Quanta vita c’è in un grammo di terra! Oggi ha piovuto e sono uscite le chiocciole di svariate architetture. Un minuto mollusco rivoluziona capriate di spazio a cupole celestiali. Ciò che gli architetti sudano a intuire, le lumache fabbricano e costruiscono senza fatiche. Intuire il divino è ardere di eternità. L’eterno s’incarna nel tempo. Le stimmate sono le lacrime degli occhi. Le visioni sono il nostro continuo adorare in Spirito e verità. Il divino è visibile ai nostri occhi. E’ più facile che Dio si riveli all’uomo, anziché l’uomo affidarsi al creatore. Certo è necessaria un’educazione permanente, ricordiamoci però che il formaggio, finché è fresco, prende sale, appena duro non  si saporisce più. Ora non sono più quel pezzo di pane avanzato. Ora sono quel lievito dello Spirito santo che penetra nelle credenze della chiesa a essere fermento per quella pasta rinchiusa per secoli nei cassetti stantii del sapere cristiano. Da pane duro e raffermo sono divenuto lievito di vita. Quel lievito altro non è che quel grembiule di don Tonino Bello. La pasta senza il lievito non fermenta nutrimento di santità. Mi disse un giorno un angelo:” Adoro te devote, latens Deitas. Visus, tactus, gustus in te fallitur. Poi aggiunse:” Non fallire con il tuo pensare. Solo con lo Spirito si ode davvero il divino. Va’ oltre i sensi. Sulla croce è nascosta la verità di Dio”. “Io credo, risposi, ma mi smarrisco facilmente!”. L’angelo riprese: “Non aver timore, non accontentarti delle piaghe del risorto, come Tommaso. Va’ oltre i sensi. Ti brucerò non soltanto le labbra. Troppe piaghe purulenti ci sono nelle sacrestie”. Va – disse piangendo – e renditi beato nel volto rivelato di ogni sofferente”. Io tacqui dinanzi al lacrimare dell’angelo. Poi l’angelico riprese: “Nel tuo grembo è il tabernacolo di Colui che si è incarnato a rinnovare ogni cosa e a sigillarti di divinità. I sensi vengono meno all’audire Dio”. Poi rimasi a lungo nel mio cavernoso tacere. Infine il mio cuore, nel suo silenzio, divenne un vulcano di adorazione. L’angelo intonò un leitmotiv divino e le schiere dei cherubini osannarono dall’alto ogni armonia:” Adoro te devote, latens Deitas!”. Nacque così, tra cielo e terra, il nuovo continente del Risorto: la vera cappella divina.

Paolo Turturro

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